Avvocà… non ti preoccupare, tanto io la posta non la ritiro”.

E’ una delle tante frasi che si sentono dire in uno studio legale e che, stampata sul ghigno beffardo di chi la proferisce, parrebbe essere una panacea a tutti i mali che affliggono il cittadino furbastro.

Ahimè non è così! Non ritirare la posta non mette al riparo dalle conseguenze negative del contenuto delle missive, sia che si tratti di corrispondenza ordinaria, sia che si tratti, peggio ancora, di atti giudiziari.

Quando il postino non trova fisicamente il destinatario del plico presso la residenza, ovvero quest’ultimo liberamente decide di non voler ricevere alcunché, ecco che la busta viene portata in giacenza presso il competente ufficio postale, dove vi rimane per un mese di tempo prima di essere spedita al mittente. La giacenza e quindi il mancato ritiro comportano comunque l’avvenuta ricezione da parte del destinatario del plico. Non a caso parliamo di plico, perché, a tutt’oggi, è molto dibattuta in giurisprudenza la concreta natura della ricezione in parola. Infatti, se non si può dubitare della ricezione del plico, certamente si dubita dell’effettiva ricezione del contenuto del plico. Sul punto la Cassazione è ondivaga. Nel 2005, per la Corte, la dimostrazione che una raccomandata fosse stata ricevuta dal destinatario non valeva di per sé a dimostrare quale fosse il contenuto della lettera, l’onere di dimostrarne il contenuto spettava al mittente (Cass. civ. sez. III, 12/05/2005, n. 10021). In seguito nel 2013 al Palazzaccio hanno cambiato opinione: “La raccomandata a mezzo del servizio postale si presume giunta a destinazione sulla base dell’attestazione della spedizione da parte dell’ufficio postale, e spetta al destinatario l’onere di dimostrare che il plico non contiene alcuna lettera al suo interno, ovvero contiene una lettera di contenuto diverso da quello indicato dal mittente. (Cassazione civile, sez. VI, 24/06/2013, n. 15762). In sostanza è cambiato l’onere della prova: mentre in un primo momento gravava sul mittente, ora grava sul destinatario. Per inciso, è bene dire che, nella prassi, questa diatriba tutta giuridica è stata superata da un “francese”, o almeno così sembra suggerire il nome! Infatti, nome e battute a parte, la cosiddetta raccomandata “…alla francese” non permette alcuna contestazione sul contenuto, poiché trattasi di una “raccomandata senza busta” in cui il foglio scritto con il contenuto della missiva è opportunamente piegato diventando esso stesso una busta, impedendo, dunque, qualsivoglia manomissione postuma all’apertura del plico. E’ un escamotage che qualche avvocato usa per diffidare la controparte, oppure, a dispetto delle regole di eleganza e di deontologia professionale, invia barbaramente ad un collega avversario (sic!).

Ad ogni modo, la raccomandata “alla francese” non è sempre utilizzabile a causa dei volumi stringati che la stessa può contenere per forza di cose ed allora si è obbligati ad usare la raccomandata tradizionale, per cui la contestazione del contenuto potrebbe essere l’unica via per difendersi dagli effetti nefasti del documento ricevuto. Certo è che, sia condividendo l’orientamento giurisprudenziale del 2005, sia quello più recente del 2013, la compiuta giacenza impedisce ogni contestazione, poiché il plico, come ricordato, dopo un mese ritorna nelle mani del mittente, che da un lato avrà vita facile per dimostrare il contenuto della spedizione, dall’altro renderà impossibile al destinatario affermare che nella busta, invece di una messa in mora, c’erano fogli di giornale. Insomma, un motivo in più per ritirare la corrispondenza.

Tutto quanto ora descritto vale per la corrispondenza “non giudiziale”. Per quella giudiziale le cose si complicano ulteriormente.

Sebbene la legge preveda delle forme alternative (sovente ad appannaggio di Agenti addetti alla Riscossione o di avvocati), di regola le notifiche degli atti giudiziari vengono fatte dagli ufficiali giudiziari del competente UUNEP (Ufficio Unico Notifiche e Protesti).

Le notifiche possono essere fatte a mano dall’Ufficiale nel rispetto dei codici di rito, oppure a mezzo posta. Quando la notifica è fatta direttamente dall’Ufficiale senza usare il servizio postale (e ciò perché il luogo di recapito è all’interno dell’area di propria competenza) si applicano, per gli atti riguardanti il processo civile, gli artt. 136 e seguenti del codice di procedura civile. In particolare l’art. 140 cpc, stabilisce che in caso di rifiuto o irreperibilità l’Ufficiale è tenuto a depositare la copia dell’atto alla “casa del comune” dove la notificazione deve eseguirsi, affiggendo, nel contempo, un avviso del deposito in busta chiusa e sigillata alla porta dell’abitazione o dell’ufficio o dell’azienda del destinatario, avvisandolo, per giunta, anche con una successiva raccomandata con avviso di ricevimento.

Quando, invece, l’Ufficiale è in condizione di utilizzare il servizio postale si applicheranno le regole stabilite dall’art. 149 cpc ovvero la L. 334/1982 ed in particolare, all’ipotesi che qui ci occupa, l’art. 8, che regola puntualmente modi e termini per considerare come consegnato il plico rifiutato.

Se qualcuno pensa invece che la variazione di residenza possa aiutarlo a fuggire da un plico indesiderato, è altrettanto in errore.

La residenza, così come risulta nei registri del Comune, per l’appunto, di residenza, è meramente formale. Infatti, con la sentenza 19978 del 23.09.2014 la Suprema Corte di Cassazione ha stabilito che ai fini della determinazione del luogo di residenza o dimora della persona destinataria della notificazione, rileva esclusivamente il luogo ove essa dimora di fatto in modo abituale, rivestendo le risultanze anagrafiche mero valore presuntivo circa il luogo di residenza e potendo essere superate, in quanto tali, da una prova contraria, desumibile da qualsiasi fonte di convincimento, affidata all’apprezzamento del giudice di merito. Ma c’è di più! In materia di notificazione cartelle esattoriali l’art. 60 del DPR 600/1973, così come modificato dal DL 223/2006 – convertito dalla L. 248/2006, stabilisce, senza tanti giri di parole, che “Le variazioni e le modificazioni dell’indirizzo [non risultanti dalla dichiarazione annuale] hanno effetto, ai fini delle notificazioni, dal trentesimo giorno successivo a quello dell’avvenuta variazione anagrafica”.

Poiché la ricezione di un plico, nonostante il rifiuto o l’irreperibilità del destinatario, comporta l’avvenuta conoscenza di una determinata informazione (si pensi al caso dell’art. 1335 cod. civ.) non è mai consigliabile non apprendere materialmente il documento contenuto nel plico. In nostro ordinamento, spesso, contempla termini di decadenza da un diritto molto ravvicinati e che decorsi possono avere conseguenze molto gravi ed irreparabili.

Ma i riottosi alla ricezione della posta hanno oggi un ulteriore ostacolo: la PEC (Posta Elettronica Certificata). E’ un tipo particolare di posta elettronica, disciplinata dalla legge italiana, che permette di dare a un messaggio email lo stesso valore legale di una raccomandata con avviso di ricevimento tradizionale garantendo così il non ripudio. Per avere valore tale posta certificata è valida solo se spedita da un indirizzo PEC ad un indirizzo PEC. Per gli atti giudiziari, oramai da tempo, l’UUNEP può utilizzare codesto strumento, mentre è di recente introduzione la possibilità per i soli avvocati di sostituirsi agli Ufficiali giudiziari nella notifica anche con la posta elettronica. L’unico vero limite della PEC è che questa è obbligatoria solo per talune categorie di soggetti (società, professionisti iscritti in un ordine e la P.A.) e non per le persone fisiche in quanto tali poiché, quand’anche possano dotarsi di tale strumento, non compaiono su registri pubblici; inoltre la tecnologia PEC non è riconosciuta come standard internazionale.

In altre parole, non c’è scampo alla ricezione di un plico, anche contro la nostra volontà!

Quando ricevi un plico, l’unica furbizia è quella di leggerne il contenuto e di correre dall’avvocato per comprenderne appieno il valore. Meglio spendere qualche denaro per la parcella di un abile professionista facendo valere un diritto, che spendere, presto o tardi, un patrimonio per aver fatto solo lo struzzo.

 

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