Negli ultimi anni la Suprema Corte si è pronunciata con numerose e anche recentissime sentenze, sul rapporto esistente tra il delitto di maltrattamenti in famiglia, sanzionato dall’art. 572 c.p., e il “mobbing”, escludendo la sussistenza del reato in tutti i casi in cui  il rapporto lavorativo non abbia carattere parafamiliare.
Occorre precisare  per “mobbing” si intende tutta  quella serie di comportamenti del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematici e protratti nel tempo, tenuti ai danni dei lavoratori, che si risolvono in sistematiche condotte ostili, in forme di prevaric

azione e persecuzione psicologica, demansionamenti a scopo punitivo o attribuzione di compiti dequalificanti, esorbitanti ed umilianti rispetto al profilo professionale posseduto dal o dalla dipendente, fino ad emarginarlo/a sul luogo di lavoro, con evidenti conseguenze sul suo equilibrio psico-fisico.

Ebbene nel nostro ordinamento non esiste una specifica legge in materia di mobbing. Per tale ragione quest’ultimo  non è configurato come uno specifico reato a sé stante ma, di volta in volta, le condotte di mobbing possono rientrare in altre fattispecie criminose previste dal nostro codice penale come le lesioni, le minacce, lo stalking o gli atti persecutori, le molestie sessuali, la diffamazione  e non da ultimo il reato di   maltrattamenti in famiglia.
Proprio con riguardo a quest’ultimo  la Suprema Corte ha precisato che la fattispecie di cui all’art. 572 c.p. è applicabile anche ai rapporti di lavoro solo se essi abbiano carattere parafamiliare, ove cioè vi sia una consuetudine di vita tra i soggetti, oppure la soggezione di una parte nei confronti dell’altra e un consistente grado di fiducia riposto dal soggetto più debole nei confronti del datore di lavoro.  Sul punto la Cassazione ha affermato  che affinché il mobbing possa inquadrarsi in questa figura di reato (appunto il “maltrattamento in famiglia”) occorre che i comportamenti siano stati tenuti nell’ambito di rapporti lavorativi caratterizzati da relazioni stabili e abituali, consuetudini di vita, soggezione (anche psicologica) e fiducia di una parte più debole rispetto all’altra che riveste una posizione di supremazia (Cass. sent. n. 13088 del 20.3.2014, Cass. sent. n. 31714/2014 e sent. n.18832/2014).

E dunque nelle realtà aziendali di medie o grandi dimensioni non si instaura quella intensa ed abituale relazione tra datore e dipendente tale da parificare l’ambiente di lavoro ad una famiglia e, di conseguenza, le condotte vessatorie ai danni del lavoratore, lo svilimento e l’umiliazione delle sue funzioni, le contestazioni o i rimproveri pubblici ed ingiustificati non integrano il reato di maltrattamenti in famiglia.
Secondo questo orientamento, infatti, il lavoratore non avendo rapporti diretti e costanti con il proprio datore potrebbe tollerare con maggiore facilità eventuali comportamenti poco professionali, ma del tutto occasionali, del suo superiore, stante l’assenza di un vincolo fiduciario assimilabile a quello che si instaura in una famiglia.
Una interpretazione, quella della Corte, non immune da critiche e che si fonda essenzialmente su due motivazioni.
La prima attiene alla collocazione sistematica del reato di cui all’art. 572 c.p. nell’ambito del titolo dei delitti contro la famiglia.
La seconda ragione è che la rubrica dell’art. 572 c.p. restringerebbe, secondo gli “ermellini”, l’ambito di applicabilità della fattispecie alla famiglia e ai conviventi, sicché il mero contesto lavorativo di subordinazione e sovraordinazione non sarebbe idoneo a configurare il reato.
Le critiche a cui si prestano le suddette argomentazioni sono molteplici: innanzitutto le rubriche di una norma penale si caratterizzano per la loro sinteticità nel descrivere il contenuto della norma stessa ma non sono in alcun modo vincolanti per l’interprete, né si può sostenere che esse esauriscano già di per sé la descrizione della fattispecie.
In secondo luogo, l’art. 572 c.p. elenca una serie di categorie di possibili persone offese dal reato, tra cui anche coloro che sono sottoposti ad altrui autorità o affidati all’agente per l’esercizio di una professione.
Per cui i maltrattamenti subiti da colui che detiene l’autorità o dal datore di lavoro rappresentano delle ipotesi del tutto autonome e alternative rispetto alle altre previste dalla norma che, invece, richiamano l’esistenza di rapporti familiari tra i soggetti coinvolti.
Quanto poi al criterio dimensionale dell’azienda che, ove abbia un organigramma particolarmente complesso, escluderebbe il carattere parafamiliare del rapporto di lavoro e, di conseguenza, anche la configurabilità del reato di maltrattamenti, è evidente come esso abbia ben poco a che vedere con il bene giuridico protetto dalla norma.
Infatti, ancora prima dell’esistenza di un carattere parafamiliare del rapporto di lavoro, ciò che rileva, è la natura prevaricatrice delle condotte tenute dal superiore gerarchico nei confronti del subordinato al fine di valutare se esse siano tali da rendere insostenibile la situazione lavorativa della vittima e da arrecarle, perciò, un danno esistenziale.
Lettura quest’ultima certamente più aderente alla ratio  del reato di maltrattamenti che è quella di tutelare i soggetti  vulnerabili a prescindere se la condizione di inferiorità si realizzi in un contesto familiare o lavorativo.
In ogni caso, la Cassazione ha  precisato che nelle ipotesi di rapporti di lavoro che non siano così intesi, diretti e abituali da renderli del tutto speculari a quelli familiari, pur non sussistendo il reato di maltrattamenti, resta ferma la configurabilità di altri reati quali le lesioni personali gravi, le minacce, le ingiurie e la violenza privata, eventualmente aggravati dall’abuso di relazioni d’ufficio o di prestazione di opera.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *